Il MUDEC celebra Vasilij Kandinskiji. Viaggio dalle icone russe all’astrazione

A 150 anni dalla nascita, Milano celebra il genio di Vasilij Kandinskiji (Mosca 1866- Neuilly-sur-Seine 1944), da una prospettiva inedita. Al MUDEC una mostra racconta la vicenda creativa del padre della pittura astratta, filtrata attraverso il legame con la terra d’origine. Un’occasione per rifarsi gli occhi, ma anche per riflettere sul prezioso legame fra tradizione e sperimentazione.

Storie leggendarie e passaggi onirici, figure iconiche e cromie che proiettano l’assoluto. A Milano va in scena la creatività visionaria di Vasilij Kandinskij, come non l’avete mai vista. Quella in corso al MUDEC non è l’ennesima mostra blockbuster dedicata al pittore russo, ma un progetto filologico pensato in sinergia con la missione del museo ospitante: rileggere l’arte moderna e contemporanea attraverso le matrici culturali che l’hanno generata. 

Discendente da una famiglia della borghesia moscovita, dopo una fanciullezza itinerante, Vasilij Kandinskij torna nella città natia, per laurearsi in “Economia politica” e intraprendere la carriera accademica. Ma la passione per la pittura -radicata fin dall’infanzia- scalpita; così ai 37 anni d’età il futuro pioniere dell’astrattismo abbandona la cattedra per fare dell’arte una missione esistenziale.

Galeotto fu l’incontro con l’artigianato locale, nel corso di una spedizione di studio etnografico nei governatoriato di Vologda, a Nord del paese. Gli anni trascorsi sui libri -lontano da cavalletto e pennelli- non avevano spento, bensì fortificato la propensione per la ricerca estetica di quest’anima destinata a cambiare il corso della storia dell’arte.

La mostra –curata da Ada Masoero e Silvia Burini- narra di un duplice viaggio: quello reale, compiuto dal Kandinskij-uomo nei territori di Vologda, e quello ideale, che avrebbe portato il Kandinskij-artista ad abbandonare la tradizione figurativa, per avventurarsi nell’astrazione.

Al MUDEC quasi 50 capolavori del pittore russo si alternano all’arte decorativa che ispirò quelle stesse creazioni. Così il fascinoso rincorressi di stampe tradizionali e icone popolari, utensili domestici e tessuti dal sapore antico ricostruisce lo sfaldarsi delle forme e l’accostarsi delle cromie, che -generatasi dalla mente del genio- diedero vita a tele di pura emozione.

Sala dopo sala, le fiabe folcloristiche si mescolano ai topoi dell’infanzia, e la ragione incontra il sentimento. Se le effigi dei cavalieri–retaggio fanciullesco e archetipo culturale insieme- sono un pretesto per accedere al mondo dell’inconscio; le immagini del Cremlino incarnano tanto la terra natia, quanto la madre dell’artista. Ma per rappresentare i moti più profondi occorre abbandonare le coordinate spaziotemporali e attingere alla più eterea fra le arti: la musica. Ecco dunque che ogni nuance si fa simbolo di una nota del pentagramma e ogni segno custode di una “vibrazione” segreta. Così i paesaggi si sciolgono e i volti si liquefano. Il viaggio è concluso; eccoci giunti nel territorio dell’astrazione.

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