Leggenda di Capodimonte

di Asdhe

quadri in vendita online - Leggenda di Capodimonte

Descrizione

La Leggenda di Capodimonte
Ecco il mio racconto.
In un mattino di inverno, alle prime ore dell’alba, mentre il Sole sorgeva e lo spicchio della Luna ancora splendeva in alto ad ovest nel cielo tinto di blu, scorsi dalla finestra della cucina un’ombra chiara nel giardino e subito accanto ad essa un’altra ombra grigia, che quasi sembrava rincorrere la prima.
Pensai: “Sarà un riflesso. Ma di cosa? Sembra di veder qualcosa che cammina, si ferma e attende l’altra sagoma densa di nebbia grigia. Saranno mica i gatti?” Mi guardai attorno (ero ancora in casa), cercai i gatti furtivamente con lo sguardo: “I gatti son qui!”, esclamai tra me e me a bassa voce. Faceva freddo, guardai ancora fuori e le ombre si erano nuovamente spostate; si erano allontanate nella zona più amena del giardino. Curiosa, con una tazza di tisana alla cannella calda tra le mani, decisi di indossare il cappotto con il cappuccio, la sciarpa e adagio aprii la porta. Uscii e il meraviglioso paesaggio del monte Somma e del Vesuvio con il Sole, che sorge alle sue spalle, mi fece dimenticare del gelo. Bevvi un sorso dalla mia tisana fumante e guardai nuovamente in giardino. Mi avvicinai nella parte più esposta che affaccia sul bosco di Capodimonte. Andai nel punto dove si riuscivano ancora a scorgere quelle ombre, che continuavano ad allontanarsi, addentrandosi nel bosco. Mi sedetti quindi sulla mia seggiola preferita. D’un tratto mi parve sentire degli scriciolii di foglie calpestate e piccoli fragorii di rami simili a schiocchi di baci. Seguivo con lo sguardo le due ombre rincorrersi e rammentai una leggenda che mio nonno mi raccontava da piccola: la Leggenda di Capodimonte. Si tratta di una leggenda narrata nei racconti di Matilde Serao, Leggende napoletane. Mi concentrai sulle due ormai lontane ombre e provai a ricordare la voce di mio nonno: “Vieni qua, bella piccirella; ti racconto una storia, la storia del Museo del bosco di Capodimonte”. Riaffioravano i miei ricordi e con essi, il caldo abbraccio di mio nonno, originario di Capodimonte, che mi teneva sulle sue ginocchia, mentre io l’ascoltavo. Toccavo continuamente le sue mani grandi e forti e gli tormentavo il viso di carezze, toccando il suo naso, le sue guance, la sua testa liscia priva di capelli: adoravo mio nonno, lo seguivo dappertutto, lo ascoltavo, imparavo anche quando stavamo in silenzio, cercavo di comprendere, come fosse un’opera d’arte, il suo aspetto, la sua immensa umanità, lo studiavo e cercavo di scrutare tutti i suoi piccoli particolari, come se un giorno dovessi scolpire una statua e modellare il suo volto e le sue sembianze.
Restai lì a riflettere e a scavare tra i miei ricordi. Intanto il Sole si levava e la foschia di quel mattino fece svanire le due ombre. Mi apprestai a finir la tisana ed entrai in casa al caldo.
Ecco di seguito la leggenda:
“Tanto tempo fa, nei pressi del bosco di Capodimonte, vagava un uomo; egli era sempre triste, era un nobile napoletano in cerca dell’amore ideale, un’immaginaria donna, che cercava lontano tra il luccichio delle stelle, tra le onde verdi degli alberi e il fruscio del vento, immaginava che potesse essere in un punto lontano dell’infinito paesaggio, al polo nord o in Africa, ma non importava al suo cuore. Egli amava ed era consapevole d’amarla, d’amare quella donna immaginaria, la sua amata ideale. Il nobile Signore era solito trascorrere tutto il suo tempo nel bosco, camminando tra i suoi sentieri e rimirando la rigogliosa e fitta natura, dimenticandosi completamente di sua madre, dei suoi servi e dei suoi cavalli, lasciando il suo Castello vuoto. Più trascorreva il tempo tra i sentieri naturali del bosco, più egli diventava pallido e triste: era solo e si struggeva d’amore per la sua ideale amata immaginaria. Un giorno, tutto d’un tratto, scorse una figura nella foschia mattutina. Guardò con attenzione e vide una fanciulla eterea, fatta di aria e luce. Corse verso l’ombra, leggiadra ed ondeggiante, ma quando fu lì, sparì. Ardeva dal desiderio: voleva vederla ancora! Evocò la sua amata con possente volontà e gli apparve nuovamente la lontana ombra. La donna fatta di aria e di luce sembrava fuggire, scomparendo nel vento. Era una fanciulla celestiale, una creatura divina, la dama immortale del bosco: rose bianche si intrecciavano nei suoi capelli e rose bianche facevano da orlo al suo vestito. Impazzito d’amore per quella soave essenza, il nobile uomo iniziò a baciare la terra dove la donna era apparsa e la continuava a cercare incessantemente, adorandola ed invocandola sempre più assiduamente. Ella era etera ed iridescente, le sue vesti erano veli di luce bianca, il suo viso era fatto di luce. Ella si mostrava sempre più volentieri al suo corteggiatore, folle d’amore per lei: appariva sempre più vicino a lui, accennava dei sorrisi, lo salutava e appariva per poi scomparire ancora tra gli alberi. Ella si muoveva come il vento; i veli delle sue vesti, che radevano l’erba, creavano un leggero scroscio di foglie. Dove ella passava non restava alcuna traccia, i suoi piedi sfioravano il suolo; fuggevoli erano le sue più frequenti apparizioni e si fermava solo per pochissimi istanti per accarezzare fiori. Egli la inseguiva, ma appena le si avvicinava lei proseguiva, allontanandosi tra i tronchi e rami degli alberi, svanendo in essi. L’amato era stremato, ma trascinava le sue gambe e continuava la sua ricerca. La sua possente volontà gli permetteva ancora di seguirla. Nei pressi del Castello tuttavia la donna smetteva di sorridere e sul suo volto iridescente scendeva un velo di malinconia; si volgeva verso l’uomo e lo salutava con la mano, sparendo ancora una volta nel bosco. Il folle innamorato, trascorso un po’ di tempo, prese il coraggio di parlare con la bianca, eterea e divina fanciulla; le chiese di restare, di avvicinarsi, dichiarandole instancabilmente il suo amore per lei, ma invano. L’amata non parlò nè forse avrebbe potuto farlo. Ella restava ferma innanzi a lui, non sembrava turbata, era tranquilla anche vedendo la disperazione del folle innamorato. Ne ascoltava le implorazioni ed i suoi strazianti pianti; finchè un giorno, nel crepuscolo d’autunno, l’uomo preso dalla follia d’amore iniziò a sbattere la testa a terra, urlava e piangeva lacrime di amara e inconsolabile disperazione. Adorava la fanciulla celestiale, amava quella essenza, era la sua donna ideale, la sua bramata amata fatta d’aria e luce, candida come la neve e con le gote rosa pallido. Una donna iridescente ed evanescente, una divina essenza del bosco, il cui candore pareva pian piano trasformarsi in consistente densità e forma. Il nobile uomo moriva d’amore per lei e le offri la sua vita per ascoltare almeno una volta la sua voce, per udire una sua semplice parola. Le chiese se lei lo amasse e udii un sì, come una foglia che sussurra al vento. Uno slancio passionale condusse l’uomo ad abbracciare l’amata creatura e immediatamente ella si frantumò in cocci di bianca e splendida porcellana. All’improvviso in quell’istante, nella sala delle porcellane del Castello, nella profonda notte di quell’atteso giorno per il nobile uomo, notte rivelatrice dell’amore della sua donna celestiale, mentre i custodi del Castello dormivano, si iniziarono ad udire strani brusii, simili a rumori di cristalli e ceramiche come voci piene di collera. Un’atmosfera di vendetta aleggiava nella sala, funesti erano gli scontri, si udivano cozzarsi freneticamente statue di porcellana e poi, ad un tratto, fu silenzio.
Iniziò così la sfilata. Ecco i cavalli bianchi del carro dell’Aurora giungere nel giardino dove il folle amante aveva perso i sensi dopo la disgrazia: l’Aurora maledì ogni nuova alba del nobile uomo.
Fu il turno poi di ventiquattro fanciulle, le Ore, che cosparsero petali di rose avvelenate sull’uomo.
Ecco dunque gli Amorini sfilar per far visita al folle amante: dardi nel petto, pene d’amore per sempre nel suo cuore.
Poi fu la volta dei sette re di Francia, che maestosi cavalcavano i loro bianchi cavalli, percorrendo le vie del bosco. Una volta giunti dinanzi all’uomo, privo di sensi, disteso a terra e ancora svenuto, a turno lo toccarono con la loro spada per infondere l’infelicità eterna nella sua testa, nei suoi pensieri.
Pian piano tutte le statuine del Castello si recarono dall’uomo e sputi, calci gli furono dati e insulti gli vennero proferiti. Cicuta versavano su di lui le tazze, così come fiori ed erbe dai malefici poteri su di lui venivano cosparsi da tutte le coppe di porcellana, accompagnati dai vassoi di cenere.
Ultimi, ma certamente potenti, furono i Titani sull’Olimpo. Il padre degli Dei, Giove, restando sulla sua aquila, lanciò un suo fulmine mortale sull’uomo ed i Titani presto furono pronti a seppellirlo sotto pesanti massi.
Poi ogni porcellana entrò nel Castello, riponendosi nella sua scansia e restando ivi immobili. La vendetta era stata ben servita su colui che ha frantumato le fattezze della fanciulla celestiale”. Si narra che il fantasma e la dama immortale continuino a rincorrersi nel bosco. Forse quelle ombre che vidi erano l’uomo e la fanciulla delle porcellane del bosco.
Eccovi narrata la leggenda di Capodimonte, la storia di un uomo, la cui follia d’amore lo condusse a frantumare il suo sogno e a consumare la sua stessa vita, in nome di un ideale che, una volta raggiunto, si rompe in mille cocci di bianca porcellana. Il monito che ne resta è espresso in maniera egregia dall’autrice, che ha narrato la leggenda, Matilde Serao, in Leggende napoletane, nota scrittrice napoletana, amata dai napoletani e anche da mio nonno. “È questa la storia eterna e fatale. L'ideale raggiunto, toccato, va in pezzi – l'arte si vendica sulla vita – e l'anima muore sotto un immane sepolcro”.

852 visualizzazioni

0 commenti

  • Al momento non sono stati inseriti commenti per questo quadro
  • registrati o accedi per lasciare un commento

    Asdhe vende quadri online

    Asdhe

    162 107.555 65,9 / 100

    Richiedi informazioni su questo quadro

    Scopri di più