Articolo di Silvio Oliva sull'incontro"Il fiume dopo il nubifragio"

Perché poi, in fondo, è di bellezza che si tratta. Se tu entri in questa biblioteca la vedi, l’annusi, la

senti. È dappertutto. Non puoi non percepirla. Perché la bellezza è prepotente. Anche se non ci stai

pensando, anche se proprio non ti interessa quella ti viene addosso e ti sbatte nel cuore una felicità

che poi difficilmente ti togli.

Così inizia “Il fiume dopo il nubifragio”, la mostra/intervista di Alberto Cecchini, nella biblioteca

comunale il Porto, nel centro dei giardini di piazza Delia della Costa di Firenze.

Inizia immergendosi con violenza nel suo mondo, nella usa arte, in quella bellezza che ha deciso di

regalare agli avventori. Musica tutt’intorno, i suoi quadri posizionati come in un abbraccio, bellezza

ovunque tu direzioni i sensi. Alberto gira impaziente tra le sue opere, gli occhi vivi e ricchi di

entusiasmo (e forse anche di un po’ di paura). Le domande dei visitatori scandiscono i suoi

movimenti, così come le sue risposte cariche di tutta la passione per quelle che non sono solo opere

della sua mano, ma pezzi di vita scaraventati là, a mostrare al mondo la sua carne, il suo sangue e le

sue ossa. Il sole fuori ci regala una grazia speciale, quasi a dimostrarci che anche lui è dalla nostra

parte, dalla parte della bellezza. L’aria accoglie i curiosi con dolcezza, insieme a un pezzo di Ivano

Fossati che sgorga sereno dalle casse dello stereo. Fumiamo un paio di sigarette insieme, ci

guardiamo attorno in attesa di veder scorrere il tempo, che magari ci dica di entrare e cominciare.

Siamo entrambi impazienti. Non ci siamo preparati niente. Semplicemente un giorno, nel suo

laboratorio di Firenze, ci siamo detti (non ricordo bene chi a chi): “facciamo un’intervista! Una cosa

che racconti la tua arte e contemporaneamente dica alla gente che è la creatività che può salvare il

mondo”. Forse non furono quelle le parole esatte, ma il succo, la sostanza era quella. “Mostriamo la

bellezza e insegniamo che la bellezza è un mezzo per uscire dalla crisi”. Ed eccoci qua, a farlo

davvero, con una presunzione da ventenni immersa nella saggezza dei nostri anni.

Ormai le sedie sono quasi tutte occupate, le bottiglie di prosecco sono state stappate e i quadri sono

là, pronti ad essere raccontati dal loro padre/creatore, pronti a regalarci qualche altra ora di

incantevole magia.

Ricordo la prima domanda (“qualcuno ha detto che l’arte è la prova tangibile che la vita non

basta. Come ti poni rispetto a questa affermazione?”). Dopodiché non credo che riuscirei a fare una

cronaca giornalistica dell’intervista.

È stato un viaggio psichedelico e avventuroso, tra citazioni colte di filosofi e scrittori, e racconti

terra terra del marciume della vita. Parlare dei quadri di Alberto Cecchini, o meglio, parlare con lui

della sua arte, della sua living art ha il sapore aspro delle periferie urbane e i colori tiepidi delle

campagne toscane. Si sente fin da subito che tutte le sue risposte non sono semplici spiegazioni, ma

veri è propri atti narrativi della sua vita. Si sente la malinconia dei ricordi, l’angoscia del futuro, la

ferma quiete del presente. Le mie domande psicofilosofiche non fanno altro che accentuare quanta

vita ci sia in tutte i suoi quadri. Che dolori, che tristezze, che esplosioni, un romanzo a puntate della

vita di un artista, simile un classico di Dostoevskij o a un racconto di Stefano Benni. Ogni tela è

ricca di presenze: persone e cose che hanno attraversato la sua vita (e in fondo la vita di tutti)

lasciando in un modo o nell'altro una traccia sul suo cuore. Ed è così che immagino la Living Art

prenda forma, mettendo insieme tutte quelle tracce, graffi e carezze e ditate e morsi che la vita ti

mette sul cuore, mettendo insieme tutta questa faccenda intricata dell'esistenza, accumularla poi

nelle mani e riversare sulla tela.

Le domande nascono complesse, ma Alberto le rende semplici con le sue risposte. Sembra non

esserci esitazione nelle sue parole, come una poesia che ha imparato alla perfezione, e non perché se

le sia preparate, ma semplicemente perché quando parli della tua vita e hai voglia di regalarne un

pezzo non possono esserci difficoltà. Il pubblico è attento, si guarda intorno, guarda noi e ascolta;

poi (finalmente) comincia a fare domande. "quando guardo quel quadro mi viene una grande

angoscia", "non posso fare a meno di guardare quel quadro, mi dà una strana sensazione", " che

bello quello, mi sembra uno vortice che...". Ed è questo l'effetto che fa perdersi nei quadri di

Alberto. Come più volte ribadisce durante l'intervista "i miei quadri andrebbero guardati non solo

con gli occhi, ma soprattutto con l'anima, correndo il rischio di perdersi, stando lì con il cuore

aperto e vedere cosa succede". Ancora domande dal pubblico, l'atmosfera distesa e coinvolgente. Si

parla d'amore, di figli, di sudore, di tempere a olio e strati di colore, di paesani, di stranieri, di viaggi

mai fatti, di silenzi mai ascoltati. Sembra non esserci un filo conduttore, anche perché i fili sono

tanti, intrecciati in un ricamo delicato e ruvido. Le opere sono intorno a tutti noi, costantemente

protagoniste, sia quando Alberto ne parla direttamente svelando alcuni dei misteri che li avvolgono,

sia quando non se ne parla. Stanno lì senza guardarci, a ricordarci di quanta arte ci sia bisogno

perché la vita suoni come un'opera e non come un tonfo sordo e senza luce. 

Sono passate due ore. La gente è rimasta lì fino alla fine. Comincio a sentire la stanchezza, voglia

di tornare a casa, voglia di lasciare fluire tutte le emozioni vissute. Ringrazio il pubblico che mi

ringrazia e non si alza. Poi guardo Alberto: anche lui ha gli occhi stanchi e felici. Mi sorride. Lo

ringrazio. Mi giro ancora verso il pubblico che comincia lentamente ad alzarsi.

C'è un po' di nostalgia nell'aria, e non potrebbe essere altrimenti... Forse, da qualche parte dentro di

noi, tutta questa bellezza ci mancherà...

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