Rossella Frollà

Il bene morale

Il moto delle cose è un processo continuo, «ciò a cui tutto tende. É l’urto luminoso delle cose contro le cose che le riporta a casa. I pixel nelle opere della nostra artista si prendono cura di questo moto come comportamento permanente che con i suoi colori tocca i contrari. Miniaturizzano il «Meccanismo del mondo», ciò che si fa verità sotto i nostri occhi più o meno consapevoli. Il tempo raduna altri tempi con l’azione quasi sempre in fuga, avvolta dal vento che ispira pensieri, sentimenti e quel che dirige l’istante attraverso tutta la sua estensione. Il passo leggero e deciso delle figure scorta i luoghi e gli istanti che si vedono rimpiccioliti di lontano (Molo sud, Tango on the street, Travolgente pizzica). L’occhio coglie a distanza il vortice d’aria ambivalente che sana il vuoto e lo riporta a una travolgente intesa di corpi e di passioni e d’animi in cui vibrano Fuoco e ghiaccio. Le pose, le figure scandiscono il ritmo che esce da sé e apparterrà a chiunque. Vi è una musica in fuga, il bene primigenio, ontologico che si muove con sensualità in ogni luogo, capace di armonizzare la carica emotiva passionale e l’azione che tende a qualche cosa d’Altro (Profumo di rosa, Sorriso). Il blu è il buio in cui si è dentro e veste il corpo della ragazza con la valigia, lentamente si annienta nella luce del rosso, fino al bianco. L’anima di questo richiamo è la luce che raduna nei suoi luoghi le risonanze immobili della memoria (Il bagaglio dei ricordi), la giovinezza dei pensieri (Icanfly), il rapporto con un legame unico, la gioia di vivere (Joie de vivre). Si è sempre sulla soglia che divide noi da ciò che ci sopravvive: il ricordo, l’istante, la fuga di ogni cosa e il suo ritorno, in quel punto preciso, lì, dove si ferma lo sguardo che trasporta il nostro infinito e torna al principio di tutto (Anima che attraversi la vita, Perdersi per ritrovarsi). E il principio di tutto è il bene, la felicità cui tutto tende: ogni arte, ogni azione che libera il sé infinito e divino, secondo i propri mezzi. Si fa gioia ogni conoscenza, intesa come presenza, quando si scrive o si dipinge o si compone musica. Accade di colpo o lentamente uno smottamento del pensiero, un’esplosione, una deflagrazione dell’Essere, un’aggressione della parola, del colore, della nota, dello scalpellino. Accade il risalire del sé la nostra coscienza e l’io si arricchisce dei suoi doni immensi. Si fa jazz col colore (En tus manos). Vi è così tanto bene nel mentre si fa arte che si disfa ogni dolore. Scatti di un groviglio esistenziale forte piovono su una dimensione dialogica e il gesto, l’azione pittorica danno atto al bene morale, al riconoscimento più o meno consapevole della qualità delle cose alle quali nulla può essere negato poiché rappresentano il continuum che ci è dato. Si compie la metamorfosi, lì, dove il colore incontra l’occhio e l’Universo. L’arte è un dono che richiama a sé le cose e le cose parlano da sé in una visione che non è più dal di fuori, non è più rappresentazione, l’artista nasce nelle cose e lascia la «venuta a sé del visibile», del nostro antico tratto. Quel che si crea in realtà sembra essersi formato, non sembra essere stato creato. In realtà l’epifania, la rêverie, la profondità pittorica non si sa dove andrà a posarsi, a germogliare. A volte la voce della luce può avere uno sguardo, un volto (Why), un grido, una potenzialità silente, una segreta preesistenza di grazia che si fa logos di linee, di luci, di colori e rilievi pronti a rompere la loro aderenza con i corpi per andare oltre. Il nero divide lo spazio col blu poi si fa luce bianca (Io ti vedo). La ricerca di Assunta Cassa va oltre il confine della linea fino a scavare in ogni figura, in ogni oggetto quella flessuosità che accompagna la linea in tutta la sua estensione fino a moltiplicare la storia, l’avventura di quella linea, darle un senso in relazione all’entità, alla rapidità, alla sottigliezza, farla sognare secondo quello che è il ritmo che corrode lo spazio. Si sviluppa un modo di estendersi attivo dei luoghi. Una ricerca “fragile” va oltre la cosa e i suoi lati. Fragile poiché si può o si vuole rompere, spezzare, per riconsegnare ignudo un volto, un fiore, un passo di tango. «Figurativa o no la linea non è comunque più imitazione delle cose, né cosa», è qualche cosa d’altro che interrompe, prorompe, è il nuovo. E i pixel sono delle nervature, delle miniaturizzazioni di assi, di lunghezze in fioritura. La linea si forma e si estende attiva, carnale, emotiva, sentimentale, alla sua maniera si disfa in bagliore, restituisce il «visibile». La pelle delle cose è ciò che appare, un linguaggio che l’artista coglie e riproduce secondo un moto per irraggiamento e vibrazione del sentire che compie la sua metamorfosi sulla tela. Nulla può entrare nella qualità originaria di ogni cosa se non si crea un’armonia dei contraddittori. Il blu, il rosso, l’arancio si compiono, in questa pittura, verso il bianco ma, come per ogni cosa mai pienamente compiuta, hanno ancora l’avvenire.

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