Diego Fusaro

Elena Mariani

 Usciamo per un attimo dalle gallerie, dai musei, dal nostro studio o dal nostro appartamento dove attaccati a tablet, cellulare, pc, fruiamo l’arte che scorre come un infinito fiume di sabbia elettronica; chiudiamo i dati, spegniamo il wi-fi e corriamo a respirare, come se fosse la prima volta dopo tanto tempo, il profumo della natura “en plein aire”. Alla maniera degli impressionisti, fermiamo sulla tela o sul blocco da disegno questo momento di grazia, la sensazione della rinata libertà. Mettiamoci comodi su un prato e dipingiamo appoggiando il supporto prescelto sul cavalletto, posizioniamo i colori puri sulla tavolozza e riscopriamo, assieme alla proposta dell’artista Elena Mariani, cosa significhi quel sempreverde genere di pittura la quale, dopo essere stata messa al bando, dichiarata illegale, crivellata da ogni genere di bombardamento e attentato, squarciata da Fontana, sbeffeggiata da Cattelan, sbudellata da Gina Pane poi, ferita e in putrefazione, lavata amorevolmente per giorni e giorni da Marina Abramovich, nel tempio della contemporaneità che quanto più dovrebbe rappresentare la Grande Italia al passo e internazionalista tanto più si è confermata insignificante, riesce comunque a riemergere dal suo tumulo di magnifici resti. Resettiamo. La pittura non è morta, neanche nelle sue declinazioni più invise alla critica: quella figurativa e quella decorativa. È reduce dalla guerra iconoclasta portando con sé un bagaglio d’orrore e destrutturazione ma torna per restare sposandosi con la letteratura, la poesia e l’immaginazione che allontanano concettualmente da essa l’accusa di frivolezza e quello scomodo connotato platonico di “mimesis” che avevano contribuito a renderla vulnerabile, negli anni ideologici del pensiero forte, nella sua forma più pura, spontanea e naif. Esistono per fortuna ancora artisti contemporanei che sanno regalarci la stessa emozione di un Monet, di un rinnovato “impression du soleil levant” attraverso quella tecnica pura e d’effetto che, per quanto gli intellettualoidi di parte provino costantemente a distruggere, non potrà mai e poi mai smettere di essere amata dalla gente e dal risultare sempre nuova, fresca, potente e quindi in un certo senso rivoluzionaria esattamente come continuerà a stupirci il ciclo della natura che si rigenera nello bocciare di un fiore. Se studiamo dunque le opere dell’artista barese Elena Mariani, possiamo dire di essere dinnanzi ad una rivisitazione in chiave odierna della lezione impressionista che traspare in maniera più o meno evidente dalle sue opere recanti, nella grazia delle pennellate, l’energia vitale delle ”ninfee” di Monet e nei prati spettinati di Manet ben tradotti nelle opere “laguna d’oriente”, “pentecoste”, “passione”, “visioni nascoste” oppure se ci spostiamo verso un linguaggio più primitivo, quasi naif, alla stregua del ciclo delle “taitiane” di Gauguin, nel ciclo della Mariani “Donna”, o che venga proposta una sperimentazione di commistione tra colore e forma come fece già il precursore del cubismo Cezanne, è forse perché l’artista, già letterata, vuole comunicarci una lezione importante attraverso la scelta stilistica: solo indagando ed interiorizzando le fondamenta del nostro comune passato possiamo installare le basi per costruire un futuro pluralista che smetta di imporre un’unica visione, un unico modello possibile, stigmatizzando le lotte contro i mulini a vento quando non si riesce o non se ne vuole vedere il vero significato. Infatti, basandosi solo su un approccio acritico, senza alcuna fantasia, ecco che i mulini sarebbero solo strumenti di produzione borghese, ma grazie a “la macchina della narrativa” scopriamo i loro temibili profili di draghi, mostri, giganti, che senza troppo ritegno si trasfigurano davanti ad un occhio attento, mostrando ben altro sembiante dalla cosa in sé e da come appare. E se l’impresa fallisce è solo questione di riprovare, ritrovando col buonumore la voglia di credere di poter cambiare il mondo, un mulino a vento, alla volta.

Recensione del prof. Diego Fusaro

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