Vittorio Sgarbi

Deve tenerci, l’ancora giovane Fabio Cacioni, nativo di Tivoli, una laurea in economia, a far sapere di essere un artista autodidatta. L’importante, come insegnano, fra le altre, le vicende esemplari di Rousseau il Doganiere e Ligabue, è quello che poi artisticamente si consegue: è su questo piano, e solo su questo, che si può capire se la mancanza di formazione specifica possa avere svolto un ruolo negativo, ininfluente o addirittura positivo ai fini della riuscita non dell’arte in assoluto, che è concetto astratto, non secolarizzato, ma di un particolare modo di esprimersi in arte. Ricorderò, e niente affatto casualmente, ai fini del discorso su Cacioni, il caso di Jean Dubuffet, uno degli artisti maggiori del Novecento, malgrado il suo nome sia meno popolare, presso il grande pubblico, di tanti altri meno importanti di lui. Quando teorizzò l’Art Brut, ovvero l’espressione visuale più vicina in assoluto all’ambito della pura istintività, contrapponendola provocatoriamente all’intellettualità del Primitivismo, anche nelle sue manifestazioni più naïf, Dubuffet si crucciava, chissà fino a che punto seriamente, di essere dotato di cultura artistica e di avere un’attività cerebrale normale, fattori che gli impedivano di ignorare le normes esthétiques convenues. Nel caso di Cacioni, potrei fare considerazioni simili a quelle appena fatte con Dubuffet? Fino a un certo punto. Che il modello brut, “iper-spontaneista” di Dubuffet possa rientrare anche nelle aspirazioni segreti o palesi dell’arte di Cacioni, mi pare ipotesi plausibile che giustificherebbe anche l’insistenza sull’origine autodidatta. Che questo modello, conosciuto o meno ha poco rilievo, possa essere perseguito nei termini estremi ed estremistici predicati da Dubuffet, mi sembra invece più improbabile. Non perché non creda alla buona fede di Cacioni, che è fuori discussione, ma per scetticismo nei confronti del “purismo” di Dubuffet, che, come tutti i purismi, è bello perché appartiene alla metafisica piuttosto che al regno imperfettissimo dell’umano. Non hanno mai visto nulla di indiretto, di riprodotto visivamente, questi “purissimi”? E se hanno visto, non hanno poi rielaborato queste visioni indirette, nel loro inconscio, allo stesso livello di quelle dirette, come capita a tutti noi? Possiamo dirci “puri” solo quando veniamo al mondo, e forse neanche allora, se è vero che molte delle nostre reazioni sono condizionate dalla predisposizione genetica. Nel momento in cui c’è una seconda volta, non facciamo più riferimento solo a quella, ma anche alla memoria della prima. Sicché, dal punto di vista della spontaneità assoluta, non siamo più puri. Se queste riflessioni valgono per Dubuffet, figuriamoci per un lettore di Céline come Cacioni, che, per quanto autodidatta convinto, non credo ambisca alla degenerazione mentale o sociale. Se in Cacioni c’è del brut o, più propriamente, del naïf, sviluppatosi in modo non programmato a un certo punto della sua vita, senza altro intento che non fosse soddisfare un’esigenza personale di espressione, lo è esattamente come in tutti i brutals considerati da Dubuffet. Parallelamente, si può dire che spesso essere sé stessi in arte, come sicuramente preme a Cacioni, è la gratificazione che deriva dall’immaginare di essere quanto più distanti dal proprio mondo, vivendo a contatto con modi diversi di rapportarsi con il tutto, primordiali, forse di spirito animista, ai confini della civiltà come normalmente la intendiamo. Poco importa se, nel proporre il flusso continuo delle sue personali mitopoiesi, brulicanti di colori come mosaici in pasta di vetro e di forza stravolgente come se estratta dalle viscere della terra, sempre oscillanti fra vero e fantasticato, moderno e arcaico, vicino e lontano, celeste e infernale, Cacioni possa assomigliare ora al Neo-Espressionismo transavanguardista di un Lüpertz o di un Penck, ora al graffitismo metropolitano della prima ora. È scoprire continuamente l’altro che è in noi, da sconosciuti a noi stessi, quello che davvero più conta.


Vittorio Sgarbi

Palermo, 2 luglio 2014

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