Bianca Martinelli

“Sono da sempre  così, l’ho sempre saputo. Disegno da sempre e non ne posso fare a meno.” Pensando a Stig Gorlig, nell’atto di addentrarsi all’interno del suo lavoro al fine di scandagliarne il senso, la cosa che subito balza alla mente è il bisogno profondo e palpabile, un’innata e viscerale necessità d’espressione. L’invito è a badare bene alle parole, laddove termini quali “bisogno” e “necessità” indicano una pratica che in Gorlig assume toni non tanto facoltativi quanto quelli di una vera, reale e tangibile esigenza; una volontà che emerge, mi si perdoni la metafora, con modalità del tutto simili al comportamento assunto dalle sostanze oleose all’interno di un recipiente d’acqua: si può provare a rimestarle nel vano tentativo di omogeneizzare il composto e confondere le componenti ma le differenti densità, nei tempi giusti, porteranno al ripristino dell’iniziale separazione. Il lavoro di Stig Gorlig è più o meno così. Inevitabile. Si approccia all’arte poco più che infante, negli anni matura e coltiva un interesse ad ampio raggio per l’arte intesa nelle sue più varie forme: si diploma al liceo artistico ove acquisisce dimestichezza nelle prassi del modellato e della figurazione, si esercita con la chitarra classica, elettrica e acustica, si appassiona alla storia e all’arte del fumetto, suona e disegna in maniera incessante e sistematica, a tratti ossessiva. Ben presto capisce che nella pratica artistica, musicale o visiva che sia, è presente la chiave per capire sé stessa e ciò, unitamente alla consapevolezza di come solo il suo stesso corpo potesse costituire un soggetto reperibile in qualunque momento per le frequenti sessioni pittoriche, la porta a produrre numerosi ritratti di sé stessa spesso in chiave caricaturale. Nell’arco di tutto questo tempo, ad animarne lo spirito è l’inarrestabile necessità d’espressione e la ricerca di un canale che le risulti congeniale. E poi? Una laurea in architettura al Politecnico milanese, anni di esercizio della professione e le incombenze della quotidianità, di professionista, di genitore, hanno portato ad un momentaneo e parziale allontanamento dalla primigenia passione. Eppure, il tarlo di un interesse mai del tutto sopito non aveva mai smesso di scavare: arte, architettura, scultura e fumetto si erano ormai saldate dentro di lei giocando un ruolo sostanziale nel formare un gusto e un pensiero personale. Le molecole dell’olio tendevano verso la ricomposizione. Quello che anima Gorlig è un sentimento sincero in grado di generare un lavoro onesto, vero, viscerale, deciso e al contempo intimo, lontano da una visione strategica dell’arte intesa come mera provocazione fine a sé stessa e opposto a forme d’espressione che mirano al puro sensazionalismo. Perché, diciamolo, mostrare sé stessi, rivelare come si è realmente, non è mai facile eppure Gorlig riesce nell’impresa con apparente semplicità e naturalezza. Lo si avverte immediatamente entrando nel suo studio, il personale rifugio in cui, uno dopo l’altro, sfilano quegli elementi da sempre parte integrante della sua biografia e del suo operare: strumenti musicali, decine di disegni in fasi più o meno avanzate del lavoro, materiale pittorico, le funi con cui l’artista crea le posture articolate dei suoi soggetti. Arte, musica, architettura, fumetto, elementi che negli anni hanno concorso alla determinazione di un gusto, di un’estetica, la sua estetica. Colpiscono i molti album da disegno colmi di schizzi, bozzetti a penna e matita, ritratti realizzati al parco, studi circa l’anatomia di corpi in movimento o scene carpite dall’intimità dell’ambiente domestico e familiare. Questi frammenti di quotidianità sono talvolta corredati da brevi scritti, simili più a pensieri liberati in quel frangente che non ha frasi appositamente studiate, sono riflessioni nate contestualmente all’opera che l’artista riporta di getto sulla pagina, come un flusso di coscienza su un diario personale, in una sorta di automatismo psichico. Per quanto concerne le opere di grande formato, i soggetti sono quasi sempre autoritratti, forse retaggio delle numerose caricature prodotte negli anni liceali, forse un procedimento terapeutico di auto-analisi. In particolare, le molte rappresentazioni di sé  in cui corpo e volto sono colti nell’atto di manifestare espressioni esasperate, a tratti caricaturali, così come i frammenti anatomici portati quasi alla deformazione della figura, ci informano immediatamente della lontananza da una visione dell’arte intesa come idilliaca e scevra da pensieri. I muscoli in tensione, le membra piegate sino alla contorsione sotto il peso di uno sforzo fisico e mentale, il tratto sinuoso, nervoso e marcato, catapultano lo spettatore in una dimensione intimistica e in qualche modo sofferta, di grande complessità interiore. L’artista offre sé stessa, pone sul tavolo le carte scoperte dei suoi sentimenti, mette a nudo la propria anima. Nessuna eccezione, anche quando protagoniste dalle opere sono le silhouette di modelle/i, la figura umana e la sua anatomia subiscono una trattazione dai toni nettamente espressionisti in grado richiamare alla mente alcuni esiti della passata e omonima stagione artistica. Conferma e memoria di quanto descritto la si trova impressa nell’utilizzo di un abbecedario visivo denso di rimandi alla figurazione di Schiele così come a quella d’oltreoceano di De Kooning. In particolare, ad accomunarla al maestro viennese, cui Gorlig guarda in termini di grande ammirazione, v’è l’esercizio giornaliero e costante, la predilezione per il ritratto e per la sua realizzazione dal vero, il tratto nervoso, marcato e viscerale, la scelta deliberata di non portare a termine alcune forme e l’utilizzo di versi scritti che in certi casi divengono complementari alla figura nel tentativo di accompagnare sulla tela il fluire interiore. Persino nella scelta dei soggetti, uomini e donne che spesso posano nudi (nel caso di Egon Schiele simbolo del complesso rapporto con il sesso femminile, in quello di Gorlig sintomo di una volontà d’indagine circa la complessità della natura umana in senso psicologico che non manca di tradursi nell’esasperazione dell’involucro esteriore) è plausibile riscontrare delle affinità. L'intensità espressiva di corpi che assumono posture innaturali e contorte diviene quindi metafora di un esercizio d'introspezione mentale e psicologica e del relativo tentativo di comunicarne il senso. A fare da sfondo sono atmosfere rarefatte, oniriche e silenziose, spesso connotate dall’utilizzo del colore oro e arricchite dall’inserimento di elementi convenzionalmente ritenuti estranei alla tela, quali frammenti di scritti o corde di chitarra, eppure in grado di saldarsi perfettamente alla superficie compositiva dell’opera per via di quel loro essere parti integranti di un sentimento comune, quello dell’artista e del suo percorso, così fedele e coerente a sé stesso.
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