Lucio Barbera

Pittura quotidiana Nell’onda di ripresa del linguaggio figurativo che caratterizza l’odierna stagione della pittura e che per molti aspetti induce legittimamente a preferire la buona astrazione in qualche modo oggi relegata in un canto, è dato osservare un fenomeno particolare e cioè come tale figurazione sia soprattutto contrassegnata dalla tendenza a non rappresentare la realtà; quella realtà che per tanto tempo è stata la finestra da cui ha guardato la pittura. Così oggi la figurazione si nutre soprattutto di visioni oniriche, strappate ad una coscienza sognante, di furti spesso supini consumati ai danni del museo, di una protesta che si esprime nei termini di una accentuata deformazione, di una sorta di scoperta del linguaggio, che può avvenire in maniera stupefatta o aggressiva o infine, ma la classificazione di comodo non è certo completa, di una maniera quasi ludica e, se non divertente, almeno divertita. Da qui una pittura che sfiora, di volta in volta, il surrealismo, che annega nel citazionismo, che attraversa l’espressionismo, che assume i toni di un nuovo alfabeto che può essere primitivo o selvaggio o che, in fine, si cala nelle strade, assumendo l’aria di una raffigurazione metropolitana. Stranamente, dunque, dalla figurazione resta quasi esclusa la realtà che viene sormontata o dalla memoria o dalla coscienza e che pertanto sulla tela nei neofigurativi viene utilizzata soltanto come pretesto per una comunicazione più semplice, pur se complicate sono le sue diverse motivazioni. Sembra quasi che l’uomo e, qui nel caso specifico l’artista, non abbia più occhi per guardarsi intorno e ciò che può accadere o per un rifiuto della realtà o per una improvvisa cecità, quasi un tramonto di quella grande stagione che fu detta del realismo o, come meglio è stato dimostrato, dei realismi. Ma in questo rifiuto c’è anche, a mio parere, la volontà di sottrarsi a quel doppio confronto che una simile scelta imporrebbe non soltanto con la realtà (paesaggi e figure che siano), ma soprattutto con quanto la pittura ha già prodotto, nella sua lunghissima storia, guardando proprio alla realtà. Questo rischio si prende in pieno Lorenzo Chinnici, un artista che sembra giunto alle soglie della sua maturità espressiva e che in pieno s’inserisce in un ambito realista, recuperando il gusto della scoperta pittorica quotidiana, di quella pittura cioè che nasce direttamente dall’osservazione della realtà che ci circonda. La sua scelta tematica è eloquente in tal senso, volgendo da una parte sul paesaggio della sua terra siciliana, alla quale appare estremamente legato e dall’altra sulla presenza di persone-personaggi di una vita che intorno a lui si svolge con i suoi drammi e le sue gioie, le sue impennate e la sua irrimediabile noia. Nel far questo l’artista (Merì, 1942) pur restando con i piedi, anzi con la pittura, ben salda per terra, evita quel grosso errore in cui incappano in quanti si affannano in una sterile rappresentazione del reale, non soltanto nella illusione di poter fare qualcosa di meglio, ma soprattutto tradendo lo statuto fondamentale della pittura che il suo diritto di esistenza ha conquistato, cioè da sempre, proprio per aver voluto costituirsi, essa stessa, in un mondo a parte, non specchio ma proiezione del reale. Così nella recente produzione artistica di Chinnici si nota come il suo realismo, se da una parte ha eliminato da sé i filtri della memoria e della coscienza, in pieno ha assunto come guida una totale partecipazione al “mondo visto con gli occhi”, da cui deriva un realtà interpretata, filtrata cioè dall’adesione sentimentale. Se dunque Chinnici non elude il drammatico corpo a corpo con la realtà, da essa poi finisce con il trascendere, per esprimere le sensazioni e gli umori, gli stati d’animo cioè, che essa suggerisce. Procedimento questo praticamente inverso da chi, oggi, approda ad esempio sul terreno di un “neosurrealismo” o di un “neoespressionismo”: questi, infatti, nella realtà calano tensioni diverse, (il visionarismo o la protesta) che nascono prima di essa, mentre il pittore siciliano proprio dalla realtà spreme le sue sensazioni. E’ possibile in tal maniera leggere compiutamente il suo lavoro sotto un duplice profilo o, ed è dir meglio, ad un duplice livello. C’è infatti, in un primo luogo la volontà di recuperare momenti di un mondo quasi banale, che la pittura si incarica di sottrarre alla sua condanna di anonimato. Ciò Chinnici fa, da esempio, quando dipinge la fatica dei contadini e dei pescatori, quando sulla tela riporta scorci paesani, i paesaggi dell’infanzia dove tutto appare circoscritto e angusto, o quando coglie infine brandelli di vita, come possono essere un incontro, un’attesa, una piccola scena. Se nel far ciò l’artista recupera quasi un gusto da reporter del presente, calando la pittura nel quotidiano o, dando al quotidiano, la dignità della pittura, il suo realismo offre anche un altro aspetto, che è dato proprio dalla capacità di spremere il quotidiano per raccogliere sulla tela di succo di una sensazione, di una partecipazione a volte dolente, a volte nostalgica, a volte drammatica. E’ quello l’altro livello di lettura che una tale pittura consente ed allora non è difficile scorgere, al di là del lato iconografico rappresentato, lo stato d’animo da cui nasce o che provoca: così la figura umana, spesso molto ben realizzata, implica una forte tensione quasi tormentata, mentre di solito il paesaggio sembra preludere ed invitare ad una conquista pacificazione ad un’ansia soddisfatta di serenità. Sono questi i due poli tra i quali oscilla la pittura di Chinnici che poi, sotto il profilo del linguaggio che si fonda su una struttura scabra, senza manieristiche malizie, ma quasi ridotta all’osso ( segno evidente di una grande urgenza che non consente compiacimenti), testimonia un già maturo possesso dei mezzi espressivi che pur nel loro volutamente dimesso non nascondono un’aria di volta in volta poetica o lirica. Dal complesso di tutte queste opere, che qualche volta sembrano guardare, soprattutto nei paesaggi, ad una maniera toscana calata nella realtà siciliana (sono avvertibili echi da Rosai o da Soffici), o che rivelano una celata non attenzione a certi modi di Guttuso o di Cantatore, viene fuori come una sorta di racconto che va al di là delle immagini e che implica la partecipazione non soltanto dell’occhio ma del cuore. Di quel cuore con cui certamente l’artista va guardando la realtà per interpretare o per su di essa imprimere il suo essere attento al presente, magari pensando che presto tutto ciò sarà passato, irrimediabilmente inghiottito dalla fuga del tempo che finirà con il cancellare, di questi brandelli di vita, anche il ricordo.
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