Nino Ferrara

La vera e grande povertà dei poveri non consiste tanto nel loro stato economico quanto nel loro stato mentale. Ma quando gli uomini non hanno più ideali, allora è meglio che non abbiano neppure idee, poiché ad avere solo quest’ultime, non illuminate da quelli, si finirebbe col metterle al servizio dell’egoismo e spesso anche del delitto. Sembra che nei poveri di Chinnici ci sia la presenza del pensiero non come giustificazione d’un tesseramento politico, ma dei pensieri come rodimento interiore e condizione umana di chi sa che sotto tutti i governi dovrà soltanto lavorare e pagarsi il pane, la casa e la tomba. Tutte le figure di Chinnici mi hanno costretto più o meno a pensare e ad internarmi in una problematica con facili porte di entrata e incerte porte di uscita. Ma, passando alla disamina dei paesaggi, mi sono trovato come davanti alle opere di un pittore diverso; non dico in meglio o in peggio, ma soltanto diverso, capace, infine, di impegnare più il sentimento che il pensiero, e quindi musicalmente più riposante, più lirico, mediterraneo. In realtà, il contrasto tra questi due aspetti di una produzione artistica non dovrebbe stupire, né essere considerato come una incompatibilità, tanto meno come una contraddizione o come una stonatura. Basta pensare alla dolorosa tristezza delle tragedie greche. Erano tragedie, sempre tragedie, ma venivano rappresentate davanti ai panorami più belli, sotto i cieli più splendidi, nei teatri costruiti appositamente sui luoghi più ameni e incantevoli. La bellezza degli scenari naturali non era per nulla incompatibile con la tristezza dell’opera tragica, poiché, infondo, anche la tristezza è bellezza e la tragedia è poesia. Tolto il dolore, viene ad inaridirla la stessa fonte dell’arte. Lorenzo Chinnici, forse senza saperlo, cioè senza una volontà prestabilita, ma per puro istinto, ha creato da greco, ha sentito da greco, come se avesse detto alla sua arte le stesse parole rivolte da Baudelaire alla sua donna: "Sii bella e sii triste!". Ogni paesaggio ha una sua anima e una sua espressione come un volto, e ogni volta è nel contempo un paesaggio, nel quale il pittore cerca di cogliere non solo le linee, ma il dramma segreto che vi si nasconde. Lorenzo Chinnici, pur essendo ancora giovane, ha maturato in sé non comuni capacità di espressione. La sua tecnica è frutto di studio, condotto con serietà e impegno. Il suo stile è nervoso ma senza parossismi, è attento e preciso ma senza leziosità. Si potrebbe dire che molte qualità insite nelle opere, sono insite anche nell’autore, ed è naturale che sia così, almeno per quelli che della sincerità fanno una legge e vedono nell’arte l’antitesi dell’artificio. Egli è modesto ma non timido. Non è un carrierista e i sorpassi dei vari arrivisti e dei plurireclamizzati non lo innervosiscono. Non invidia il collega che, anche con meno meriti, sta più in alto di lui, nelle graduatorie ufficiali; tanto, si sa che i trampoli non fanno parte della vera statura dell’uomo. Pur essendo autodidatta in pittura è un uomo di scuola. Fu sui banchi ora è in cattedra, e non di meno resta convinto che le lezioni più grandi e più indelebili non vengono mai da un corso regolare di studi, ma piuttosto da un corso irregolare di esperienze vissute. Nel mondo artistico moderno che mantiene i suoi rapporti più sul filo dei giudizi che su quello degli affetti egli ci tiene molto a quest’ultimi non crede in un arte cerebrale che, faccia sorda alle ragioni del cuore e quelle istanze sociali che sono il lievito di quell’eterno tradito che è il Vangelo di Cristo. Con questi presupposti che testimoniano una conseguita maturità e un equilibrio interiore che si rivela tanto nell’uomo che nell’artista. Lorenzo Chinnici si inserisce con la sua arte nella panoramica delle nuove generazioni, con quell’autorità che viene da un’energia qualitativa dell’arte stessa non dalle astuzie ipnotiche della reclame e da i centri di quel potere economico che forse mai come oggi è parso tanto inquinato di faziosità e ingiustizia.
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