Roberto Maria Siena

Marco Calcagni

E LO SPAZIO DELL'INTERIORITÀ

 

La storia dello “spazio dell'interiorità”, in Occidente, è lunga e complessa; non la possiamo certo riassumere in questa sede. Basteranno pochi cenni. Quando il Caravaggio maturo si getta alle spalle la natura e si lancia fra le braccia della dialettica buio-luce, non fa altro che mettere le mani negli abissi dell'anima. Di conseguenza il Merisi, al chiaro e ordinato disegno dello spazio rinascimentale, sostituisce fondali ciechi, un regno insondabile delle ombre che altro non è se non l'infinito di una psiche peccaminosa e perduta. Su questa “voragine” si getterà avido il Romanticismo il quale intenderà l'opera d'arte come figlia prediletta delle profondità umane. Ora è a questa sensibilità e a questa visione - del-mondo che dobbiamo ricondurre il cuore della produzione pittorica diMarco Calcagni. Perchè il nostro è sostanzialmente un frequentatore di “piccoliformati”? Per il semplice motivo che il piccolo formato rimanda eloquentemente al segreto dell'anima, al suo accartocciarsi su se stessa per una musica che vuole essere sottile e che quindi rifugge dalle trombe del clamore. Di qui la delicatezza del gesto pittorico di Calcagni e la fondamentale liricità della sua voce; ora tutto ciò non è sciolto dall'adozione di quel gomma piuma che sta tanto a cuore all'artista. Prima di procedere, permettiamoci alcune considerazioni tese a contestualizzare storicamente ed esteticamente la scelta del nostro. L'adozione di un “materiale spurio” quale la gomma piuma, ci mette in contattocon la posizione assunta da Calcagni nei confronti della tradizione delle avanguardie storiche; Hegel sostiene che non ci si libera della storia così come non si abolisce la propria ombra. E' perfettamente vero. Il pittore dunque fa propria quella “strategia dell'impurità” che ha contraddistinto la rivoluzione delle “primeavanguardie”; detto questo, va però sottolineato con forza che Marco Calcagni non ha la minima intenzione di seguire la ferocia iconoclasta del Dadaismo e delle neoavanguardie. Infatti, fa trionfalmente rientrare la gomma piuma all'interno della pittura; compie un gesto del genere perchè è la pittura la sua vocazione viscerale e il suo destino. Detto questo non abbiamo ancora detto nulla; perchè la gomma piuma e non un altro materiale? Rispondere ad una tale domanda non è difficile; la gomma piuma è morbida, quindi costituisce una metafora eloquente di tutto ciò che è commestibile e che rientra nel regno ampio del piacere. Siamo così giunti al cuore di Marco Calcagni. La “strategia dell'impurità” è stata accolta, ma rimossa per quanto concerne il suo carattere sovversivo perchè una tale posizione avrebbe condotto direttamente alla “morte della pittura”; la “morte della pittura”, a sua volta, coincide con il rifiuto della trinità bellezza-piacere-pittura, come ha dimostratoabbondantemente Marcel Duchamp. Calcagni è un artista che si schiera invece contro l'autore del Grande Vetro e che lo accusa, giustamente, di aver dissolto l'arte entro le coordinate frigide del concetto; in questo modo il nostro si accosta alla polemica scatenata dall'Anacronismo nei confronti delle neoavanguardie e dell'eredità duchampiana. Il suo albero genealogico è però evidentemente altro da quello dell'Anacronismo; il pittore persegue i territori dell'astrazione e quindi si riallaccia ad una storia diversa, una storia che mantiene comunque i contatti con il piacere e con la bellezza. Basti pensare, tanto per fare qualche esempio, alle Improvvisazioni di Kandinsky, alle delizie giocose di Mirò, alle sottigliezze di Klee; aggiungasi poi il trionfo della pittura celebrato nelle pagine febbrili dell'Informale. In questo senso il nostro è anche vicino a Luigi Montanarini il quale ha combattutoa lungo la battaglia contro la “morte della bellezza” predicata ed attuata dalle neoavanguardie. Nello stesso tempo, in quanto pittore astratto, Marco Calcagni afferma in pieno le ragioni dell'antireferenzialismo; l'opera d'arte non ne vuol più sapere della mimesi; procede manifestando clamorosamente un'aseità linguistica econcettuale dalla quale non si torna indietro. Questa aseità, a sua volta, fa da piedistallo alla liricità; lo abbiamo detto e intendiamo ripeterlo. Calcagni non è un artista dionisiaco; non è un informale il quale intende l'arte come presenza insistita e come esaltazione convulsa; Calcagni è un esploratore di segreti, è un tentatore di incanti, è un collezionista di voci sottili. Tutto questo, va da sé, mette capo al quadro; concludiamo soffermandoci su questo tema del tutto cruciale. Le neoavanguardie hanno tentato e tentano di abolire il quadro; perchè lo fanno? Lo fanno perchè ritengono che il quadro separi l'arte dalla vita. Per Calcagni una tale distinzione non contiene nulla di male; anzi, corrisponde semplicemente alla realtà. Nella Biennale del 1999 il padiglione tedesco viene dedicato a Rosemarie Trockel la quale attira l'attenzione del fruitore su di una vera e propria “apoteosi del riposo”. L'artista fa sistemare, infatti, delle brande in una penombra tesa a confortare il visitatore della rassegna veneziana. Questi però non può certo sostare a lungo all'interno dei locali della mostra. Dunque, nonostante tutti gli sforzi della Trockel, l'arte rimane un hortus conclusus, uno spazio comunque separato dal quotidiano e dall'esistenza ordinaria. Marco Calcagni non ha bisogno di attendere il 1999; ha stabilito da sempre, infatti, che ciò che conta accade all'interno del quadro e che, al di fuori di questo, nulla salus. Noi, suoi parassiti, veniamo gettati all'interno di un tale “oggetto”, un “oggetto” nel quale il nostro ha accumulato l'incredibile ricchezza che scaturisce dall'atto della creazione, quell'atto che vede la nascita di un controuniverso il quale, conclude l'artista, per il semplice fatto che esiste, mette fra parentesi il mondo in cui siamo stati catapultati senza che nessuno di noi venisse preventivamente consultato in proposito.

Robertomaria Siena

Gennaio 2007

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