Francesco Andolina

L'Olimpo oggettuale di un artista prestato all'ateneo : Pietro Cosentino a Palazzo Asmundo

Di fronte alla più recente produzione locale, tendenzialmente impantanata nel circolo vizioso di un epigonale concettualismo strisciante, si rivela singolare e provocatoria la scelta di Pietro Cosentino di presentarsi al pubblico come acquarellista - disegnatore di frammenti oggettuali.

Questo straordinario ritorno all'icona proposto dal conosciutissimo ordinario di Geofisica, trasformatosi in Picos davanti al cavalletto, è stato celebrato tra le sale settecentesche di Palazzo Asmundo, in una recente mostra promossa dalla Provincia Regionale di Palermo dal titolo "Profumi, odori e colori: soste, emozioni e pensieri in una normale vita frenetica".

Già all'inizio del percorso osservando le opere, eseguite con una tecnica straordinariamente incisiva e meticolosa, è possibile individuare le due caratteristiche più rilevanti dell'artista: la prima è quella di sapere estrapolare dal contesto il particolare, che da una condizione di neutralità ottica assurge a elemento epifanicamente espressivo; l'altra è la scelta del punto di vista, che rende l'oggetto inedito protagonista della una pratica della fotografia e della camera oscura chiaramente formativa.

L'evento imprevedibile, nel panorama artistico successivo alla grande rivoluzione aniconica del secolo scorso, consiste nel fatto che, a ben guardare, l'oggetto – da Morandi a De Pisis, da Andy Warhol a Damien Hirst – non è mai stato cancellato dall'universo e dall'interesse tematico dell'avanguardia3. Il tutto sta nel saperlo proporre scavalcando gli angusti limiti della pura referenzialità. Del resto la storia ci conferma che il bue squartato di Rembrandt – che tanto influenzò Francis Bacon e Soutine prima di lui – declama in maniera più esaustiva di un qualunque ritratto e che le caffettiere e i vasi di Morandi vivono una condizione di solitudine esistenziale analoga a quella espressa dalle struggenti successive figure di Alberto Sughi.

La forza comunicativa sulle condizioni di vita sociale che Van Gogh conferisce ai suoi "scarponi" non sarebbe potuta essere maggiore ricorrendo ad altra figuratività. E come dimenticare gli stivali di Jim Dine Silhouette Black Boots del 1972, nei quali è concentrata tutta l'ideologia dei cavalieri popisti e sessantottini? Anche per queste infrequenti riflessioni, Cosentino è una rivelazione. L'artista, che nella necessità d'indagare e scandagliare l'apparenza delle cose per arrivare alla verità nascosta, palesa l'altra sua anima di scienziato, se al primo sguardo sembra orientato verso traguardi iperrealisti, ad un attento esame si svela disinteressato ai compiacimenti narcisistici che in buona parte caratterizzano quel movimento, teso invece a conferire alle nature morte una vita propria, dotata di una forte carica semantica, basata spesso su valenze analogiche. E così che le catene, le corde, gli scafi – complici i titoli scelti – per l'osservatore più sensibile, subiscono un impulso vitale che dallo stadio relittuale li anima di nuova identità, divenendo stazioni di un itinerario mentale che permette lo scambio simbolico tra l'essere e il significare, il visibile e l'ipotizzabile. Se le corde flessuose, morbide, complesse e labirintiche connotano il femminile, il legno degli scafi dal fasciame lacerato, dai titoli eclatanti come l'Abbandono, La resa, che rimandano a situazioni personali o quello delle sedie inservibili, che ostentano blasoni inutili come esse stesse, è sempre un materiale logoro, rugoso, straziato dal lavoro e segnato dalla vita, che si metamorfizza per diventare paesaggio interiore, riflessione ed interpretazione sul carattere transitorio che caratterizza noi e tutto quanto ci costruiamo attorno.

Un tema nuovo rispetto alla precedenti mostre6 è quello dei libri. Una volta metafora di conoscenza e pertanto di qualcosa di imperituro, (almeno fino a quando Duchamp non ne ha stravolto il senso) qui perdono questo connotato storicizzato per negare, con la loro componente di chiusura, il concetto stesso di condivisione del sapere. Sono totem fossilizzati di una veicolazione cognitiva ormai a rischio, sostituita dalle nuove tecnologie dilaganti in spazi illimitati. Corazze logore che sottraggono alla vista la pagina gutemberghiana, teorizzando la negazione di ogni significato. Quasi una ricerca del silenzio contro la presunzione tuttologa di un certo rumoroso blablaismo ubiquitario.

In Da rilegare, che sembra mutuato dai trompl'oeil di Giuseppe Maria Crespi, il tomo appare logoro e consunto dal tempo che dilava il senso di ogni cosa (nella fattispecie le significazioni di un processo cognitivo oggettivo) e che nei fatti è il vero protagonista di tutte le opere presentate. Il tempo. Sembrerebbe immobile, incipit contemplativo, ma la solitudine che lascia e racconta in opere come Dopo una cena formale, Sicurezza antica, Chiavistello è cifra della sua velocità. Anche se bloccato nell'incantesimo del momento, segna con la consunzione estetica e la lenta esarazione materica il suo ineludibile passaggio.

Con queste opere, permeate da un silenzio ovattato, conseguenziale all'inesorabilità del suo infrenabile flusso, l'aedo Picos celebra la liturgia della solitudine. Mai, come per questi lavori l'etichetta di "Arte silenziosa", come definiscono i nordeuropei la natura morta, sembra più appropriata. È, la sua, una solitudine declinata al singolare e non è detto che debba sempre essere tale. Basti pensare ad Edward Hoppe o ad Alberto Sughi, per esempio, che la declinano anche al plurale. Qui la tazzina, la bicicletta, l'ombrello abbandonato portano inevitabilmente a quell'universo intimistico del ricordo che pare velare di mestizia disincantata tutta l'attività di Cosentino, che mai esita nell'autocompiacimento pittorico della mera ecfrasticità.

Gli stessi paesaggi marini, tema "a rischio" da questo punto di vista, pur ripercorrendo iconografie storicizzate, non indugiano mai nel quadro di genere. Anche i pescatori e i polpari col loro gesto rituale e quotidiano oscillante tra due qualità oppositive (ordinarietà/straordinarietà), sgranano il rosario dell'epica della solitudine. E qua, col significato della vita intesa nella straordinaria bellezza della sua serena, ordinaria attività quotidiana, che Cosentino si rivela soprattutto un poeta affabulatore, un pifferaio magico che si avvale di un ancor vivo panvitalismo infantile per trasferire e far convergere le sue esperienze personali nel mare delle singole storie universali.

Questa esposizione partita seguendo i rigidi binari di un verismo indagatore, tracima adesso nella favola. Una favola che parla di un universo piccolo, di un olimpo oggettuale nascosto tra la ruggine delle cantine e i magazzini dei casolari ma dove, per consentaneità, si percepiscono gli alti e bassi che ritmano la nostra esistenza. A questo punto la natura morta, nel suo percorso iconografico scandito dal panorama artistico dell'ultimo dopoguerra, compie un ulteriore passo avanti: dopo essere stata mitizzata dalla Pop americana, giudicata come capo d'imputazione di boom consumistici nel Nouveau Realism, sistemata in bacheca per sociologiche riflessioni con la Trash Art e alla fine ibernata nell'estetizzante incomunicabilità iperrealista, le si conferisce nuova esistenza e, tramite un allusivo cambio di ruoli e di significati, le si dà un'anima.

Resurrezione e Creazione insieme. La straordinaria bellezza della vita, idealmente concepita tra i rituali prometeici e solitari dei pescatori, ha il suo sviluppo conclusivo con il tema più recente: quello delle scarpe da ginnastica. E una serie particolare perché se fino ad ora gli oggetti rappresentati erano lacerti residuali di una umanità assente, adesso vi è traccia di chi le indossa e, cosa ancora più rilevante, queste non hanno subito la consunzione del tempo, rimanendo stabilizzate nella loro attualità. Allora se Pierre Restany affermava che il mondo è un quadro per Picos, invece, il mondo è uno specchio e negli oggetti rappresentati il pittore si riflette, si osserva, si riconosce.

E se questi è – come dicevamo – un narratore, io credo che da quelle scarpe parta la storia e con quelle la storia si concluda. Quasi un cerchio che si chiude nell'alternanza generazionale senza soluzione di continuità. Quelle scarpe, in cui a volte si insinua il tema ecologico dell'inquinamento ambientale, altre volte si sperimenta la prospettiva aberrata di tradizione mantegnesca, come gli stessi titoli alludono, non sono le nostre, ma esalano il fresco Profumo di gioventù.

Come se il vecchio Kronos, il tempo disteso e lento della saggezza e dell'età matura, avesse ceduto il posto a Kairos, il tempo dell'attimo fuggente, dell'occasione da prendere al volo, della momentaneità giovanile. Ad un tratto sentiamo che le emozioni e i pensieri della «normale vita frenetica» di questo artista prestato all'ateneo, trovano consolatorio e fiducioso appagamento nella baluginata volatile giovinezza della più recente generazione.

Ora anche noi osservatori, in questo deragliamento interpretativo, riconosciamo, nell'odore gommoso delle scarpe da ginnastica, la metafora di un'età felice, quando si indossavano le mitiche Superga ruminando l'idea fuggiasca di una vita in divenire, e possiamo cogliere – grazie a Picos che ce le rivela come simbolo di un passaggio testimoniale – il piacere di consegnare e condividere coi figli l'eredità preziosa di un innocente sogno cullato come reliquia. 

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