Labirinto alfanumerico

di Rino Capone

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Descrizione

In questa tela rappresento i numeri da zero a nove e le lettere maiuscole del cosiddetto “alfabeto latino” (usato nei sistemi di scrittura di mezzo mondo), quale arricchitosi delle lettere anglosassoni J e W. Combinando lettere e numeri possiamo esprimere tutte le parole e le formule che vogliamo. Su una pagina bianca ognuno può, teoricamente, scrivere la più bella poesia di tutti i tempi, venendosi a trovare nelle stesse condizioni psicologiche ed emotive in cui si trova il pittore che affronta il vuoto infinito della tela.

A parte gli artisti che amano scrivere sulle tele i relativi titoli (ad esempio, Gauguin), risale ai cubisti la moda di inserire lettere di alfabeto nella pittura. Essi inventarono anche il collage e i papiers collés. Nel 1911 Braque dipinse Il portoghese (olio su tela, cm 117 x 81,5), inserendovi qualche numero e varie lettere o segmenti di parole: precisamente (dall’alto in basso), D BAL, CO, &, 0,40. (D BAL è la parte finale di GRAND BAL, titolo di manifesto esposto all’ingresso di un bar di Parigi dove si ballava). 

Il movimento Dada (1917) inaugurò la moda di assemblare caratteri tipografici disallineati (diversificati), al solo scopo di infrangere le regole e la logica della omogeneità. 

Nel 1938 Paul Klee (1879-1940) dipinse le lettere dell’alfabeto in ABC für Wandmaler (ABC per pittore murale), originale esecuzione a graffio, in olio su cartone telato di cm. 56 x 38. 

Con l’avvento della Pop Art, si sprecano nei dipinti parole di senso compiuto e sequenze arbitrarie di lettere, sulla scia di quanto aveva fatto Stuart Davis (1892-1964), non a caso annoverato tra i precursori della Pop Art stessa. 

Arthur Danto afferma che le parole sono “veicoli di significato e oggetti materiali”. Pertanto, “la figura di una parola deve essere distinta da una parola tout court”. Cita come esempio la sigla EAT di Robert Indiana, che è da considerarsi “una parola dipinta, piuttosto che il dipinto di una parola”. (La trasfigurazione del banale, a cura di Stefano Velotti, Laterza 2008). 

Varie opere di Jean-Michel Basquiat[1] sono talmente piene di parole da sembrare pagine di block-notes. Scrive di lui Gianni Mercurio (Basquiat, Art Dossier, Giunti): “Le frasi enigmatiche inserite nei suoi quadri avevano la logica propria degli aforismi. Il linguaggio, criptico e simbolico, privo di apparente contenuto narrativo e dalle relazioni oscure, era anticomunicativo ma seducente al tempo stesso”. Insomma, le lettere dell’alfabeto sulla tela producono una suggestione estetica del tutto svincolata dalla semantica. Sarà anche vero, ma esse sono comunque i mattoni che si utilizzano nella costruzione di parole e discorsi. Io le collego (fra loro) con segmenti neri, bianchi, rossi, ad indicare un preciso sistema di relazioni. 

[1] – Basquiat (1960-1988) è stato uno dei più importanti esponenti del Graffitismo americano, indubbiamente il più grande fra i neri. Nel 1982 Bonito Oliva inserì diverse sue opere nella mostra Transavanguardia. Italia/America


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