NICOLA DAVIDE ANGERAME critico d’arte

NICOLA DAVIDE ANGERAME critico d’arte

Il mo(n)do informale di Pitti Il suo ideale utopico è „dipingere un miliardo di quadri senza farne mai uno uguale all’altro“, lasciando in tal modo che la vita fluisca sulla tela attraverso la spontaneità del gesto, la casualità dell’umore, la forza della sensibilità. La conquista di una consapevolezza informale matura, proviene da una coazione a dipingere che trova nel bios, nel corpo organico, fisico e biologico (nuova conquista degli ultimi decenni che corrisponde all’avvento della tecnologia elettronica smaterializzante) il suo nodo centrale. Un nodo gordiano inestricabile che nel gesto del dipingere trova il modo di riflettere, di produrre, la propria complessa realtà e pratica un tentativo di rappresentanza di nuove istanze, come il desiderio postmoderno della carne, la rivalutazione dell’istinto, la nuova alleanza con il Destino trasformato in caso e introdotto nell’opera d’arte come coprotagonista. La scrittura automatica dei Surrealisti (primi indagatori dell’Io), viene ereditata da questa pittura „automatica“ scevra ormai anche di ogni teoria dell’inconscio, priva di sapere e armata di volontà. Una pittura che tenta di essere ardente al dettato immediato dell’esistere, sfruttando la concretezza del corpo, della tela e del colore. Una concretezza fino ad allora subordinata alle istanze legittime di una pittura intesa leonardescamente come „cosa mentale“ e ora rivendicata come un pensiero-pittura capace di „fluire“, copiosa, immediata e spontanea come il pensiero, semplice e libero, che accoglie nel suo processo umori e sensibilità, emozioni e intuizioni momentanee: un pensiero lieve e contrapposto alla riflessione attenta, allo studio concentrato di concetti, nozioni e azioni. La pittura de-finita lascia spazio a una pittura in-finita. La pittura di Pitti si alimenta di queste conquiste e ne rappresenta un esito estremo, in cui il gesto si libera da ogni sovrastruttura culturale per diventare pura azione, guidata da un’interiorità in cerca solo del gesto che compie. „Dipingere come viene, da accidente ad accidente, – scrive il filosofo torinese Marco Vozza a proposito dell’arte di de Stael – procedere casualmente, credere ostinatamente all’azzardo, significa se non istituire, almeno seguire un’altra logica, più aderente al dettato dell’esistenza“. Anche Pitti segue una logica altra, in cui il primato smette di essere detenuto dal progettare una forma o nel negarla, ma diviene nel fare prima del pensare che ottiene effetti rivoluzionari anche sull’opera d’arte, la quale passa in secondo piano rispetto al flusso produttivo. Lo dimostrano gli ultimi dittici e trittici di Pitti, sempre più rarefatti e sempre più espressione di un flusso che tenta di affermarsi oltre la tela del singolo quadro, per riempire il mondo di colore e di luce, per offrire sostanza pittorica in olocausto al proprio (horror vacui). Questo agire si muove verso un’esistenzialità del gesto che ha nell’arte calligrafica orientale un involontario ma naturale punto di riferimento per quanto concerne il rapporto tra il gesto e la verità spirituale, tra la pennellata e la personalità, tra la singola azione e l’illuminazione raggiunta, che è abilità tecnica indistricabilmente connessa all’intuizione del nulla profondo che resiste dietro il mondo come velo e come apparenza. Per questo motivo, l’informale gestuale di Pitti non ha bisogno di riferimenti mondani evidenti perché si nutre di un’energia interiore che trova sfogo nella tecnica peculiare messa a punto negli anni. Questa tecnica prevede la stesura del colore sulla tela a velocità di esecuzione massima, per agevolare la quale Pitti usa il rullo da imbianchino invece che il più classico pennello. La velocità esecutiva fa parte integrante del modo di operare di questo artista, che ha fatto del flusso e dell’istinto un credo capace di sostituire la teoria con pochi accorgimenti validi lungo i corsi degli anni. In questo senso la pittura smette di essere un progetto, un’attività circoscritta nei momenti di produzione che nel corso della vita impegna l’artista come una professione, e diviene tentativo di lasciare il segno lungo il tempo della propria esistenza quotidiana. Un tempo trasformato in spazio. Pitti dichiara il suo desiderio di lasciare tracce, sempre e dovunque. Questa coazione a segnare, a far scaturire da sé luci e colori in continuazione, genera un senso di vertigine teorica in chi li legge criticamente. Callois la chiama (ilinx), nella sua analisi dei giochi che comportano la rotazione. Dalle danze indiane attorno al fuoco alle meditazioni dei dervisci rotanti, questa vertigine si ritrova anche come sottofondo dell’azione informale di Pitti, nell’uso verticoso del rullo che lascia sulla tela l’impressione esatta del gesto che o ha generato: un’energia psichica che si scontra con la materia-colore e con la sua luce ideale seguendo le vicissitudini dell’esistenza. In questo senso si può anche accogliere l’interpretazione fenomenologica di Renato Barilli, che nell’arte informale dice: „per sua costituzione, insiste, sporge, si affaccia sul mondo“ inteso come „omnitudo realitatis“. Rothko, uno dei riferimenti più sentiti di Pitti, parla di una „realtà dell’artista“, che s’incarna nei suoi Multiforms e il cui volto non è datato da forme ma da colori, tonalismi, luci sovrapposte, profondità di campo, porte, aure, soglie, orizzonti: fatta di spazio e di tempo che prendono corpo nel dialogo infinito della luce. E fatta soprattutto di tela, che viene fuori come sostentamento dell’atto idealizzato della pittura. Quella tela che è grezza e resta tale, rendendo infinitamente l’opera anche un oggetto. Un maestro italiano del gesto in pittura come Emilio Scanavino, ha scritto: „Penso all’uomo e penso che se riuscirà ad avere una misura interiore riuscirà anche a trovarsi“. Pitti è l’esatto contrario, è il Soggetto disperso nel proprio bruciante vorticare, che vuole esprimere una forza in cerca di sbocchi al di là di ogni sapere e misura, proiettato verso il magmatico fluire della pittura intesa come pura emanazione del Sé. Un sé incarnatosi nel corpo che compie il gesto. Il mondo interiore e quello esteriore si perdono dentro questa danza senza figure né pose; dentro un’energia che è senza senso poiché viene prima del Senso, prima di quel processo affabulatorio che consente al significato di posarsi su un significante e conquistarlo, colonizzarlo, depauperando quell’immensa ricchezza di possibilità di infiniti sensi che è sita nel cuore della sua nullità metafisica, nel suo essere velo di Maya che non vale la pena di riscrivere in pittura ma merita soltanto di essere annullato e cancellato da proditorii gesti di stizza informali. In questo modo Pitti va in cerca del satori, dell’illuminazione che può venire dalle piccole cose, anche da un’arte abbassata il più possibile al livello primario dell’esistere, ovvero dell’essere bios, corpo animato che lascia tracce del proprio passaggio terrestre. In questa primordialità c’è una forza elementare sulla quale Pitti punta tutto il suo essere artista, ammirando il coraggio di quella generazione, la Beat Generation, che lo ha preceduto e che ha creduto nel cammino più che nella meta, nel processo più che nel prodotto, nella scrittura più che nel libro. Nell’essere più che nell’avere.


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